2.  Il grano e la mietitura
 

Il grano ha segnato profondamente la storia millenaria della Sicilia. La sua coltivazione a carattere estensivo ha assoggettato al suo ciclo vegetativo la vita dei popoli che si sono succeduti nel dominio dell'Isola. Granaio del Mediterraneo, la Sicilia ha mantenuto nei secoli, tra alterne fortune economiche, il primato incontrastato della produzione di frumento fino all'unità d'Italia, quando ha iniziato un lento e inesorabile declino.

L'intero ciclo della coltura del grano era contrappuntato da offerte votive, orazioni e canti. A Sant'Antuninu, Sant'Antonio di Padova, la cui festa è celebrata il 13 giugno era affidato, ad esempio, il compito di far granare e moltiplicare le spighe mentre ai  santi patroni dei diversi centri si offriva la primizia del mazzuni cioè un mazzo di spighe ancora verdi. Ad Alcara Li Fusi ancora oggi, nel giorno del solstizio d'estate -- coincidente con la festa di S. Giovanni Battista -- si celebra  una delle più antiche feste d’Italia, la "festa del muzzuni", dove si venera una brocca o una bottiglia appositamente mozzata e riccamente decorata, posta su una sorta di altarino davanti al quale si balla e si canta.

Il periodo della mietitura ha rappresentato  una scadenza lavorativa di primaria importanza in Sicilia,  almeno fino a trenta anni fa. A partire dal mese di maggio nelle grandi aree cerealicole dell’interno si creava la necessità di reperire una manodopera bracciantile  non disponibile nei luoghi di produzione. Si creavano, quindi, correnti migratorie stagionali di lavoratori che dalle coste settentrionali o meridionali dell’Isola raggiungevano le marine,  immense distese del latifondo cerealicolo, all’interno della Sicilia.

La mietitura del grano si configurava quindi come un momento di forte socializzazione e, di conseguenza, come un'occasione per riaffermare valori di vita comuni, vincoli di solidarietà, gesti di lavoro, espressioni vocali e modalità rituali, fuori dai ristretti confini della comunità di appartenenza. I lavoratori si organizzavano in  squadre  già nei paesi di origine e raggiungevano dopo molte ore di cammino (18-24 ore per le squadre provenienti dalla provincia di Messina) i centri della provincia di Enna.  Lì spettava al caposquadra  contrattare sulla piazza la paga giornaliera per la squadra dei lavoratori. Questi si trasferivano quindi all'antu (campo da mietere), per ritrovarsi spesso fianco a fianco con squadre provenienti da altre province.

La lunga giornata lavorativa, che aveva inizio alle prime luci dell'alba per concludersi all'imbrunire (da sole a sole), univa all'iterazione regolare dei gesti dei mietitori, scansioni temporali sancite dai pasti (sei-sette in tutta la giornata) e l’esecuzione rituale di forme di ringraziamento a Dio e ai santi. Spettava sempre al cugghituri, solitamente alla fine del secondo pasto della mattinata, invitare i mietitori a intonare le preghiere di ringraziamento invocando e lodando anche il proprio santo protettore.

Anche la pisera (trebbiatura), ritmata dall'andatura circolare degli animali (muli o buoi aggiogati a coppia) nell’aia ricolma di mannelli di spighe, replicata con le stesse modalità in tutta l'area siciliana, si configurava come un ulteriore evento dotato di carattere devozionale. Il cacciante, ovvero l'uomo che guidava gli animali dal centro dell'aia, scandiva le cacciate, le varie riprese della battitura del grano, mentre i turnanti (altri contadini) badavano a rivoltare con il tridente le spighe di grano sotto il passo degli animali. Con uno stile vocale che dal recitato si spingeva fino al gridato, il cacciante scandiva lo svolgimento del lavoro con versi di devozione e di ringraziamento a Dio, ai santi e alla Madonna, restituendo ancora una volta centralità al sacro. Accanto a questi, ma con  spiccate funzioni ritmiche rispetto alla scansione lavorativa, i richiami di incitamento agli animali (cfr. Uccello 1964; Sarica-Fugazzotto 1994; Bonanzinga 1995a e b).


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