4. I rabbini sefarditi a proposito delle donne che cantano e delle loro canzoni

 

Gli uomini sefarditi, che dominavano la scrittura e la trasmissione dei testi nelle loro comunità, modellarono l'immagine delle loro donne che cantavano come di minacciose "diverse" che bisogna controllare. La letteratura rabbinica affronta esplicitamente questo argomento. Una prima lettura di questi testi fa capire che cantare le canzoni popolari era uno dei più potenti mezzi per l'espressione dell'identità personale femminile nelle società tradizionali sefardite. I giudizi dei rabbini sulle donne che cantavano romances e canciones sefardite costituiscono una fonte di indagine relativamente trascurata. Pochi anni fa ho pubblicato i testi dei rabbini sefarditi che affrontavano questo argomento tra il sedicesimo e il diciottesimo secolo (Seroussi 1993). Segue la traduzione di alcuni brani:

Rabbi Eliyahu de Vidas, p. 589, n. 35): Reshit hokhma (Venezia 1579; ed. Y.H. Waldman, Jerusalem 1984, ch.10,

I canti sacri promuovono la comunione con Dio, invece le canzoni cantate dalle donne, con le loro parole frivole e il linguaggio grossolano provocano una separazione fra anima e corpo e anche se [i testi] non usano termini corrotti tutti questi versi sono senza valore e le persone di basso livello vengono attratte dalle parole di queste canzoni dappoco e perdono di vista la loro anima, e a tal riguardo il profeta disse: "Risparmiatemi il suono dei vostri inni e non fatemi sentire la musica dei vostri liuti" [Amos 5:23].

Rabbi Eliyahu ben Shelomo Abraham Hacohen (Izmir), Shevet musar (Constantinopoli 1712, ch. 124, fol. 76b):

E' proibito [alle] donne crescere i loro bambini con canzoni lascive e versi lussuriosi poiché tali canzoni profanano il corpo e l'anima. E la mente della donna prende a vagare ed ella interpreta questi versi che cantano di amori proibiti come se la riguardassero direttamente ed immagina di aver partecipato effettivamente alla tresca e da lì cade in pensieri profani come il serpente che dà origine al serpente volante, la lebbra della prostituzione. E ancor più, quando la donna prende l'abitudine di emettere questi suoni lascivi dalla sua bocca, essa tende ad usare parole insensate e ad insozzare la sua bocca. E ci sono donne che dicono bestemmie ai loro piccoli come se stessero giocando con loro. Dannato sia il nome di quelle [donne] che fanno tal cosa, perché questo dimostra che sono attratte dal male della prostituzione ed esse provocano una malefica epidemia perché i loro figli, crescendo, imparano ad ascoltare e a dire le stesse sconce espressioni e a profanare le loro bocche senza esserne consapevoli. Per questa [ragione] la donna dovrebbe preoccuparsi di ogni parola che pronuncia in modo che siano parole pie e graziose, parole gradevoli e squisite.

Yaacov Huli, Me’am loez (Constantinopoli 1730, commentario alla Genesi 38, fol. 188b):

Chiunque drizzi le sue orecchie per ascoltare parole innocue [devarim betelim] e canzoni di donne, e sia pure [canzoni] di uomini che non siano pizmonim (canzoni religiose), si procura danno.

Questi testi riflettono la consapevolezza dei rabbini riguardo alla diffusione, tra le loro donne, della pratica del canto e la loro impotenza ad impedirla. Per di più, nella letteratura si trovano alcuni casi di donne ebree sefardite ed orientali che non solo eseguivano musica, ma perfino composero nel campo della poesia e della canzone. In Spagna e nell'area mediterranea donne sefardite composero canzoni perfino nel campo esclusivamente maschile della poesia religiosa, nel periodo medievale (Haberman 1981). Fleischer (1984) sostiene che la moglie di Dunash ben Labrat, poeta cui si attribuisce la fondazione della corrente spagnola medievale di poesia ebraica nel decimo secolo, fosse una poetessa. Un altro sorprendente esempio è costituito dai poemi religiosi (piyyutim) di una poetessa ebrea marocchina del diciottesimo secolo (Chetrit 1980, 1993).

L'esistenza di donne sefardite che si proponevano come artiste è testimoniata anche da un altro responso rabbinico. Il testo è parte di una vicenda inclusa nel Moshe yedabber (fol. 57a) da Rabbi Moshe Israel di Rodi (morto nel 1782) descritto da Angel (1978: 32-33):

Mentre vendevano le loro mercanzie nel quartiere gentile alla periferia della città di Rodi, due mercanti ebrei videro con i loro occhi un gruppo di uomini e donne non ebrei che sembravano abbandonare la scena di un incontro sociale, suonando percussioni e trombe. Nel gruppo c'erano due donne ebree, che stavano cantando e facendo festa insieme agli altri. I due mercanti riferirono l'incidente al Rabbino Capo che a turno convocò le donne ad un incontro nel corso del quale le ammonì circa la loro inopportuna condotta.

Le donne replicarono che, sebbene fossero di fatto andate alla festa dei gentili, avevano agito così solo in una funzione professionale, non per socializzare con dei non-ebrei ma per cantare a pagamento. Inoltre assicurarono il rabbino di non essere colpevoli di nessuna cattiva azione dato che non avevano mangiato il cibo dei gentili e neppure bevuto la loro acqua. Malgrado queste rassicurazioni, il rabbino disse alle donne che la loro condotta era sconveniente e che dovevano smettere di esercitare tale attività.

Questa storia ha una seconda parte nella quale una delle cantanti maledice in pubblico uno dei mercanti che l'avevano accusata davanti al rabbino, il mercante la maledice di rimando e il nipote della cantante "una persona forzuta, quasi brutale" minaccia il mercante. Questa storia ci fa capire che le cantanti sefardite semi-professioniste si esibivano per i gentili in età avanzata (la cantante della nostra storia è evidentemente una nonna). Cartoline postali di Salonicco risalenti ai primi del Novecento ritraggono alcuni di questi gruppi musicali femminili sefarditi. E' molto evidente che le donne ebree cantarono professionalmente nei paesi dell'Africa settentrionale anche in tempi più antichi (Jones 1987: 73-74).

La sposa danza durante la cerimonia nuziale
(Smirne, 1847)
Gruppo di danzatrici sefardite di Salonicco
(primi anni del XX secolo)

Avanti | Pagina principale | Bibliografia